"Si devono approntare strumenti stabili di dialogo sociale con tutti gli stakeholders coinvolti per evitare scollamenti e distanze. Tutto questo per sviluppare forme di progettazione condivisa, di monitoraggio dei processi, di valutazione civica degli esiti. Il PNRR potrebbe essere uno straordinario cantiere per avviare processi nella direzione di una efficace democrazia deliberativa. Chiedo a tutti i soggetti interessati di condividere questo percorso". Sono queste le parole del sottosegretario Steni di Piazza sul programma Next Generation Eu.
Ho seguito il dibattito che si è aperto sul Piano di implementazione del Programma Next Generation EU e riflettuto sugli argomenti – alcuni certamente condivisibili – di quanti hanno espresso delusione – tra cui Gianluca Salvatori e Carlo Borzaga - riguardo alla collocazione dell’economia sociale all’interno delle linee programmatiche per i prossimi anni. Una collocazione che non tiene in debito conto di questa realtà e rischia di non attribuirle un ruolo di primo piano nella ri - costruzione e nella resilienza del Paese e non lo riconosce ad uno dei suoi protagonisti, il Terzo Settore, composto anche da una platea di soggetti che sono pienamente impresa e portatori di pratiche e valori rilevanti all’interno dei settori economici in cui operano.
Personalmente credo che, prima di entrare nel merito del Piano, sia corretto ricostruire la parabola ascendente del riconoscimento della economia sociale e del terzo settore e del nostro paese per capire meglio quali sono i nodi che impediscono una piena valorizzazione di quella che io amo chiamare Terza Economia. Ovviamente credo che l’approvazione del Codice del Terzo Settore nel 2016 rappresenti il momento più alto di questo processo, non solo per il risultato normativo, ma anche per il meccanismo di coinvolgimento dei soggetti sociali nella costruzione delle soluzioni normative adottate, che rappresenta un valore in sé, se si possiede una idea sussidiaria e non procedurale di democrazia.
Ma la definizione del Codice, come la legge 328/2000 per le politiche sociali, rappresentava solo la premessa di una politica di promozione della economia sociale. Questo paese non ha ancora definito una strategia complessiva di sostegno e le difficoltà di attuazione della legge – che purtroppo ancora scontiamo – dovrebbero rappresentare elementi per una riflessione. La prima - metodologica: alcune azioni di riforma, che hanno necessariamente impianti normativi complessi, subiscono strutturali rallentamenti se gestiti a cavallo di legislatura, dal momento che consegnano alla fase attuativa l’affinamento dei prodotti normativi, senza giovare di una continuità dell’azione di indirizzo politico. Peraltro, il solo strumento della delegificazione non risolve la complessità della costruzione dei decreti attuativi, soprattutto quando si tratta di decreti interministeriali, per i quali è necessaria una faticosa azione di interlocuzione istituzionale e costruzione condivisa delle norme, che scontano necessariamente visuali e vision non sempre convergenti.
La seconda - politica: una norma pure complessa non è automaticamente una riforma, “vale a dire l’avvio di un processo politico culturale di cambiamento del Paese. Ho citato la benemerita legge 328/2000 per segnalare la stessa drammatica patologia attuativa, che ha impedito – fino alla approvazione del Reddito di inserimento prima e del Reddito di cittadinanza poi – di avere una strategia nazionale di lotta alla povertà [...] Per continuare a leggere la notizia, vai alla pagina di Vita Non Profit.